Con le spalle a Cuba

Estratto dal romanzo Con le spalle a Cuba” © di Marco Tortora – opera depositata presso la SIAE in attesa di pubblicazione.

         La tappa del Cayo ha un valore terapeutico, oltre naturalmente la scusa lavorativa.

Serve per staccare dalla spirale Avana, dalle sue storie e dalla confusione che generano. Arriva un momento in cui senti la necessità di lasciare tutto alle spalle, di far passare un pò di tempo senza la tua presenza in città. Basta con la via Blanca, i suoi semafori, i passaggi a livello nemici dei semiassi, le buche e le parate ridicole del cambio della guardia della polizia rivoluzionaria, quando l’arteria principale di tutta la città si blocca per lasciare uscire dalla centrale decine di pattuglie di guardie armate pronte a difenderla,  e nel frattempo l’Avana è scoperta.

Basta con le liti, gli imbrogli, i problemi con le case, gli appuntamenti non rispettati.

Andiamo qualche giorno a casa di Horge a Caibarien.

Sole, mare, pesca e aragoste!Anche perchè devo chiudere i conti con un maledetto pesce tarpon che l’altra volta ho perso dopo un’ora e quaranta di combattimento.

Si è aperta l’ancoretta del Rapala[1] quando  ormai era a portata di raffio.

Manca  solo una fotografia. E poi mi fa piacere rivedere le guide di pesca, Vladimir e Mayto. Visto che non abbiamo ancora risolto niente all’Avana magari loro ci possono dare una mano e fissare un appuntamento con il gerente di Las Brujas, l’isolotto delle streghe. Un buon posto per pescare.

Partiamo il giorno dopo di buon’ ora.

Ho guidato sempre io perchè  adoro mettermi al volante e lasciare l’Avana quando è ancora buio e le palme lungo l’autopista si risvegliano al sole di un’alba già calda.

Quando l’umidità della notte svanisce  riflettendo la luce.

Passiamo veloci da San Miguel del Padron mentre salutiamo per qualche giorno la via Blanca e i suoi ingorghi. Se tutto va bene fra quattro ore avremo già preso il primo barracuda.

Papiriqui si è addormentato. Meglio così. Siamo solo in tre: io, la carretera e la musica che ci accompagna.

C’è poca gente in giro, per lo più riparata all’ombra dei rari ponti che si incontrano lungo la strada.

Qualcuno prova a vendere i prodotti del campo, formaggio di capra e caschi d’aglio.

E pur di attirare l’attenzione dei passanti è disposto a morire.

Qualcun’altro è in attesa di un passaggio pronto a retribuire  con altisonanti pesos cubani che non valgono niente e che sventola al passaggio di ogni autovettura. Peccato non siano biglietti verdi.

 Il paesaggio incantevole è un’esplosione di colori tra cui predomina in assoluto il verde in tutte le sfumature, in un continuo susseguirsi di laghi incontaminati, regno dei persici, e  campi di canna da zucchero e foreste di palma.

È una situazione ideale per ripensare a tutto quello che è accaduto fino ad oggi.

La storia con May naufragata nel peggiore dei modi e quella appena nata con Karla, le difficoltà oggettive nel fissare gli appuntamenti di lavoro o riuscire a parlare con responsabili fantasmi che vanno in vacanza senza avvisare nessuno. Ripercorrere, in brevi frammenti di ricordo, le immagini impresse fino a questo punto, soprattutto quelle tristi che rimangono per sempre come lo sguardo della ragazza che aspetta o quello del  bambino con l’accappatoio incontrato sotto la pioggia.

È molto facile ritrovarsi a piangere per le strade di Cuba. Basta poco.

Se poi la musica è quella giusta qualsiasi anima mediamente sensibile non ha scampo.

Papiriqui riprende conoscenza proprio mentre stavo attraversando il momento peggiore, Guccini e la sua “Locomotiva” andavano molto più veloci di noi.

Non riuscivo a parlare. Cercavo in tutti i modi di trattenere le lacrime.

Per fortuna siamo arrivati a Santa Clara.

Un saluto commosso al Comandante che ci sorride, e dopo altri 60 chilometri di curve, palme, case e camion da superare, arriviamo in perfetto orario a casa di Horge dopo una sosta tattica per fare il pieno di benzina regular.

Horge è stato il mio primo amico a Cuba, e sicuramente una delle poche persone che lo sono ancora e di cui mi posso fidare.

Sono passati alcuni anni dalla prima volta che mi ha ospitato nella sua casa, quando sono arrivato solo e timoroso dopo un passaggio di fortuna trovato a Santa Clara. Non conoscevo lo spagnolo, non sapevo come muovermi, ma ha capito subito come sono fatto e mi ha considerato presto come uno di famiglia.

Qui mi sento a casa. Anche per le premure, la disponibilità e le cenette squisite di sua moglie Marisol e della governante .    

Sono molto legato a questo posto, dal primo viaggio.

È  il luogo della fantasia e delle difficoltà passate per raggiungerlo, il simbolo del momento in cui ho avuto il coraggio di mettermi in discussione.

Quando ti butti con una sana dose d’incoscienza inseguendo un luogo troppo lontano che ora è lì che ti aspetta, con la sua natura, i suoi pesci, ma anche con tante incognite che mettono a dura prova la forza di vivere una storia senza chiedersi per sempre che cosa sarebbe stato e la paura di scoprire chi sei non te lo ha mai permesso.

Caibarien è tutto questo. Case di legno, sole perenne, mosquitos, stravaganze e semplicità d’altri tempi si rincorrono nella vita quotidiana che scorre lenta nei lavori di tutti i giorni, nelle donne che continuano a lavare l’ingresso delle case sulla terra per rinfrescarsi un pò, nella ricerca dei pezzi di ricambio delle poche automobili che girano ancora, aspettando di uscire all’alba per controllare l’umidità sul tettuccio della nostra auto, segno della bella giornata che verrà.

Una colazione veloce a base di uova e frutti tropicali, talvolta piccole aragoste lesse, e già sei in macchina che ti perdi come ogni volta alla ricerca della strada per il cayo, quando è ancora buio pesto, il momento più oscuro della notte che sta per finire, e i carretti trainati dai cavalli non si vedono, ma ci sono e rappresentano l’unica fonte di disturbo alla tua attenzione, già proiettata sul mare, sgombra dai pensieri ma carica di aspettative, forse troppe.

É tutto buio dopo la sosta alla pseudo dogana installata per controllare i documenti. Da questo punto in poi i cubani non possono entrare.

Il paradiso è un bene riservato ai turisti.

La strada inizia da qui, senza barriere di protezione.

Se fori sei spacciato. Finisci nel mare. Ma non si può fare a meno di accelerare, Seven Nation Army[2] non può più aspettare.

L’oscurità svanisce nella luce dell’alba che avanza più veloce di noi. 

Non è questo, forse,  il paradiso delle aspettative? Se non si hanno almeno qui, dove tutto è possibile, dove da un momento all’altro puoi ritrovarti in canna un pesce di diverse decine di chili, un tarpon gigante o magari uno squalo bastardo che nuota in profondità e la sua maledetta pinna non si vede ma quel morso sul pesce tranciato di netto non può essere quello di un barracuda, nemmeno di quelli enormi che non riescono a saltare fuori dall’acqua per quanto sono grossi.

No, quel morso non può essere che di uno squalo o di una cubera guerriera.

Se agganciate uno di questi dentici giganti nel HUECO DE LAS CUBERAS, in mare aperto a nord di Las Brujas, perdete ogni speranza di prenderlo, o semplicemente vederlo, perchè senza nemmeno avere il tempo di capire cosa sta accadendo avrà già disintegrato il vostro terminale d’acciaio contro i coralli che ricoprono il buco, ovvero la sua casa.

Storie di ordinaria a-normalità da queste parti, come ci raccontano le guide che di questi mostri ne hanno agganciati tanti, ma solo pochissimi però sono riusciti a portare in superficie.

Una volta, a spinning con la barca in deriva,  mi ha inseguito fin sotto i piedi una cubera  grande come il mio  motorino, o forse di più, e sinceramente sono stato contento che non abbia abboccato perchè se no mi avrebbe fatto esplodere l’attrezzatura.

Un’altra volta, un russo incontrato in mezzo al mare sulla barca di Mayto ci mostrò con orgoglio il suo Pargo di 5 chili mutilato selvaggiamente da qualcosa di spaventoso che aveva sfregiato con le sue fauci tutto il lato sinistro del pesce. Ditemi poi se non si arriva qui carichi di aspettative.

Immaginate una strada in mezzo al mare lunga 50 chilometri, che da Caibarien arriva fino a Cayo Santa Maria, un isolotto immerso nell’Arcipelago de Sabana a nord di Cuba, formato da centinaia di altri piccoli isolotti,  più o meno ricoperti da mangrovie, che nascono a ridosso dei bassifondi cristallini della zona, pieni zeppi di aragoste e naturalmente pesci.

Cinquanta chilometri per cinquanta ponti. L’unico modo che il mare dispone per poter defluire attraverso la strada che lo sbarra e lo taglia in due.

L’unico modo che i pesci hanno di passare da una parte all’altra e soprattutto il migliore alleato nella loro caccia, in quanto le correnti originate dal passaggio delle acque innescano quella complessa catena alimentare generatrice di vita e di morte che parte dal plancton e arriva ai predatori più grandi. Quindi sono tutti lì che aspettano il proprio turno.

I pescatori tutto questo lo sanno bene. E dopo un pò che frequenti questi posti e parli con gli operai cubani che pescano nascosti sotto i ponti ti rendi conto delle grandi opportunità che questo ambiente può offrire.

Vale la pena raccontare di un episodio accaduto al ponte numero 9, il più grande e famoso di tutta la strada, quando una notte, durante il combattimento con un tarpon stimato sui dieci chili, un italiano di Modena si è visto ingoiare il suo bel pesce da qualcosa di molto ma molto più grande che gli ha sfilato in pochi secondi duecento metri di trecciato da 50 libbre, lasciando la bobina del mulinello senza un centimetro di lenza a luccicare con la luna.

Ora, fino a questo punto potrebbe sembrare tutto perfetto, ma in realtà non è così.

Spesso la pesca non è facile, un pò per l’altezza dalla quale si manovrano gli artificiali o le esche vive, ma soprattutto per il vento che soffia teso da nord e che impedisce di lanciare bene e portare le esche ad una giusta distanza nella corrente prima di iniziare il recupero.

Ma è una bella sensazione. Immaginate di stare su un ponte alto dieci metri che passa su una strada sperduta che galleggia sul mar dei Caraibi; in lontananza oasi di mangrovie gelose custodi di segreti, un vento  fresco che dà quasi fastidio; e in cielo, davanti ai tuoi occhi, nuvole di gabbiani e altri uccelli che stridono e si rincorrono volando nel vento, pronti a scagliarsi sulle sardine impazzite che schizzano fuori dall’acqua inseguite senza pietà da pesci di ogni tipo, ombre di tarpon, cernie nere, barracuda, grossi pargo, cubere guerriere e agguati fulminei che alzano schizzi e increspano la superficie dell’acqua senza preavviso.

 Gli  uccelli sono i primi che se ne accorgono pattugliando dall’alto, e i pescatori li seguono perchè sanno che sotto di loro ci sono le sardine e che sotto le sardine ci sono predatori in caccia.

Da questo momento può succedere di tutto.

Sinceramente non mi sono mai sognato di fare il bagno nelle vicinanze di questo ponte, l’acqua è ancora troppo torbida e qui sotto il mare è profondo, non si sa mai.

 Una volta abbiamo visto una famiglia di delfini scuri, due adulti e tre piccoli. Sembravano squali da lontano.

Un altro problema all’apparenza secondario, ma dalle conseguenze imprevedibili, è costituito da una fantomatica guardiaparco, un tale in divisa più o meno militare che pattuglia la zona con la sua barchetta facilmente riconoscibile perchè simile a quelle utilizzate in Indocina per risalire i fiumi e che di fatto sostiene che la pesca dai ponti è vietata perchè la zona è inserita all’interno di un parco naturale nazionale.

Con grande sorpresa e sgomento ho scoperto questa novità all’inizio dell’anno, appena arrivato al Cayo con due amici. Pescavamo piccoli barracuda dal ponte numero 7, di prima mattina.

Questa barca si avvicina e  scendono tre tipi tra cui lui, che si presenta e mi espone il problema, comprendendo quasi immediatamente la mia buonafede ma minacciando di punirci con una multa salata se una prossima volta ci avesse scoperto a pescare qui.

È stata una brutta notizia che abbiamo non-accettato male, buon Dio, uno si fa migliaia di chilometri per lanciare i suoi artificiali in questi luoghi, e tu, brutta guardia pesca, mi vuoi rovinare la festa? E mi vuoi fare pure una multa di 1000 pesos, che non ho ancora capito se cubani o convertibili in dollari?

Il giorno dopo, cercando di esorcizzare la paura al ponte numero 8, eravamo lì fuori dalla macchina ad esaminare la superficie dell’acqua e vedere, aiutato dalle lenti polarizzate, se nei paraggi passassero pesci. Eravamo pronti ad afferrare immediatamente le canne se avessimo visto anche solo un’ombra, e infatti così stavamo facendo quando una sensazione strana mi ha detto di guardare in avanti.

Dall’altra parte del ponte, sul lato sinistro con le spalle a Cuba, ci stava aspettando seminascosto nella sua ape verde militare mimetizzata all’ombra di un cespuglio.

Il bastardo già  si pregustava la scena: con pazienza attendeva quel maledetto momento in cui noi avremmo preso a pescare. Forse di primo istinto, appena riconosciuti, avrà pensato bene di uscire allo scoperto e mettere in pratica la minaccia del giorno prima ma ha capito subito il rischio che comportava questa mossa, cioè una completa mancanza di prove che si sarebbe risolta in un nulla di fatto.

No, lui ha aspettato per coglierci in flagrante con il corpo del reato, ma per fortuna non ce l’ha fatta, ce ne siamo accorti prima noi.

Con una raggelata tranquillità siamo saliti in macchina, salvi, contenti e  desiderosi di gustare lentamente le sfumature di rabbia mista ad ira che con la stessa velocità comparivano sul suo viso sconfitto e attraversato da un rigolo di sudore che lo faceva apparire ai nostri occhi ancora più buffo.

Abbiamo chiesto in giro. Le guide di pesca dicono che non esiste alcun divieto, che hanno sentito parlare di questo individuo ma che non ha nessuna autorità per imporre questa condizione. Pensano si tratti di un pescatore professionista del posto invidioso che ha paura della pressione esercitata dai pochi turisti a pesca da queste parti.

I compagni del ponte numero 9 lo conoscono bene e anche loro non sanno se ridere o correre ai ripari.

 So solo che il responsabile di una compagnia straniera che sta costruendo un complesso turistico a Santa Maria e che viene a pesca quasi tutti i pomeriggi, una volta, durante l’ennesimo battibecco con la guardia ha minacciato di andarsene via da Cuba senza terminare il  lavoro nel caso non lo avesse lasciato in pace.

Quasi si metteva in moto la macchina diplomatica. Poverino, così lontano da casa e il suo unico passatempo osteggiato da una guardia insensibile a queste cose!

Resta il fatto che questo personaggio, un pò temuto e un pò preso in giro, è sulla bocca di tutti i pescatori che passano da qui e che devono fare i conti con lui se vogliono pescare.

Raccontavano di queste storie.

Di un tramonto infuocato sui contorni di una Cuba nera che appariva, ai nostri occhi in mezzo al mare, vergine come quando l’uomo bianco ancora non si conosceva; infreddolito dal vento che scontra sulla pelle ancora calda e bruciata dal sole di un giorno infinito.

 Davanti a quel mare agitato dalle lunghe attese, i gabbiani litigano fra di loro accaparrandosi  le sardine tramortite da attacchi precedenti andati a vuoto e stridono lanciandosi sugli ultimi pezzi di pesci più sfortunati travolti dalla corrente. E  queste storie e questi piccoli drammi della vita di tutti i giorni  assumono contorni sfumati e nascono le leggende. Che rimarranno per sempre, insieme agli odori e alla sete che provavo in quel momento, quando la vita vale la pena di essere vissuta.

Quando sullo stesso ponte incontri lo stesso signore modenese conosciuto in un viaggio precedente, che è ancora lì a scrutare la superficie dell’acqua con la sua canna modificata e la scorta di artificiali sempre più scarsa a causa degli incontri fortuiti avvenuti nei giorni passati, quando tu non ci sei ma lui è lì, con la sua Fiat Uno grigia con la targa cubana e il portabagagli sempre aperto, e le poche esche rimaste semi schiacciate dalla cassa frigo enorme dalla quale di sicuro esce una coda, magari di un barracuda o di un meraviglioso snook che non ha resistito all’inganno.

Arriviamo sul ponte nel tardo pomeriggio, dopo una battuta poco generosa dalla spiaggia bianchissima di Santa Maria, e già da lontano lo riconosco impegnato nell’azione di pesca. Avrà visto qualcosa e infatti…il tempo di salutarlo dopo una  breve assenza di un paio di mesi che non riesce a capire, e un tarpon sui 15 chili sale in superficie ingoiando l’esca finta. Inizia la battaglia.

– Chi è? – Mi domanda Papiriqui intuendo che già lo conosco.

– Lui è di Modena ma vive qui a Cuba. È in pensione ed è iscritto all’università – gli rispondo mentre seguo la scena con la telecamera.

– Picchia con i piedi per terra! Che sennò va a finire sotto i piloni del ponte – avverte bruscamente  mostrandoci come fare.

E così picchiamo, mentre lui gode ad alta voce sotto le sfuriate serrate del pesce ancora nascosto.

– Mio Dio che testata! – esclamo sporgendomi dal muretto per riprendere tutto.

La frizione del mulinello è sempre più chiusa, continuiamo a battere per l’emozione mentre il pesce sembra avvicinarsi lentamente.

– Avete un raffio con voi? – ci chiede.

– No – rispondiamo vedendo bene il tarpon che intanto prosegue la lotta e ad ogni colpo di coda pompa  una piccola nuvola di sangue fuori dalle branchie.

Esce dalla corrente e si posiziona di traverso quasi sotto gli scogli per riprendere energia.

Lo vediamo benissimo, dall’alto della nostra posizione.

– Ponte numero 9! – esclamo incredulo ammirando il pesce in due salti mozzafiato quasi consecutivi.

– Vado giù? – gli chiedo. – No aspetta! Non mi sembra morto. Sta perdendo sangue, credo di averlo agganciato sotto le branchie, però ancora non vuole morire. Scendo lentamente, vado piano a prenderlo perchè ho paura che mi pianti il rapala nella mano! – e infatti il tarpon trova le forze per l’ennesima sfuriata e quasi  lo ferisce.

– Visto? Lo dicevo io che era pericoloso. Facciamo una cosa… –

Afferra una pietra e colpisce l’argento della testa con tre colpi sulla branchia del lato a cui è rivolto a noi.

Tre colpi perfetti e sincronizzati, e proprio per questo macabri ambasciatori di presagi di morte.

In mezzo ad un paradiso di natura incontaminata esiste la morte che si rincorre ogni giorno.

E che continua a tintinnare nelle mie orecchie fra spruzzi di acqua e sangue.

– Altrimenti mi ammazzava lui! – si giustifica il pescatore sapendo di mentire. 

Quando uccidi un pesce di una certa mole è differente. Ai più potrà sembrare la stessa cosa, e in realtà lo è, ammazzare due pesci, uno grande e uno piccolo. Stai ammazzando un essere della natura e questo gesto potrà apparire più o meno insensato.

Ma vedere morire un pesce importante, un grande riproduttore sedotto dal fascino delle migrazioni, uno dei più alti anelli gerarchici della catena alimentare dell’Oceano, avvicina molto alla sensazione della vita che sfugge e che se ne và negli stessi ultimi istanti in cui scorre tra i muscoli che vibrano sensibilmente sotto le ultime scariche elettriche, turbandomi ancora di più perchè molestano, anche da morti, l’egoismo della coscienza che sperava fosse già tutto finito.

E ancora si dimena un’ennesima volta, strozzato e colpito, sbattendo contro gli scogli.

– E’ finita! -.

 In una pozza di sangue.

– Il cavetto d’acciaio è distrutto –

– Da quante libbre è? – gli chiedo ancora scosso per la scena vissuta pochi istanti prima.

– Da 70. Ma è inservibile! –

– Io ce l’ho da 50. Se lo vuoi? –

– Ah, va bene –  risponde con un accento emiliano che conosco bene.

– Qualche altro lancio lo farei –.

Passano le ore, le mangianze brevi ed improvvise si alternano a momenti in cui i gabbiani volteggiano in alto senza fatica e senza troppo rumore, segno che i branchi di sardine sono dispersi.

 È  l’ultimo giorno qui al cayo, domani si ritorna all’Avana e ancora non sono riuscito a prenderlo.

Giusto qualche barracuda, uno di quelli veramente grossi, diciamo over 20 per intenderci, che al ponte numero sette ha ingoiato un popper[3] fosforescente e, dopo una dura lotta, ha avuto il coraggio di aprire  il moschettone di una girella SAMPO da 70 libbre con una poderosa testata, ma lasciamo stare, ancora non mi sento di parlarne.

Senza escludere piccoli pargo e cuberetas e uno spanish makarel dalla barca. Niente tarpon, mi rimane solo la carta del ponte.

Siamo stati sfortunati, il tempo era pessimo e il vento quasi insopportabile.

Il problema è che si sta facendo tardi e manca poco al tramonto.

 Papiriqui si è stufato di fare la vedetta dei gabbiani e informarsi sugli spostamenti dei branchi di pesce continuando a fare jogging su e giù per il ponte.

Ha pensato bene di infilarsi nella macchina e dormire alla faccia del tarpon.

Il modenese, a dire il vero in maniera un poco misteriosa, si congeda semplicemente  dicendo che sarebbe andato a provare su gli altri ponti della strada del ritorno.

Ma senza specificare il numero.

– E allora? – mi guarda sorridendo – A presto! –                     

– Ci vediamo uno di questi giorni da queste parti. Tanto ritorno sempre lo sai -.

Sono di nuovo solo. Arrivano dei cubani e si mettono a pescare con dei filaccioni[4].  Uno di loro attacca un tarpon che al primo salto si slama, poi tocca a me perderne uno bello grosso alla prima evoluzione.

Tanti inseguimenti, ombre argentee, semplici allucinazioni provocate dalla stanchezza, il buio che si avvicina e la tenacia della mia forza di volontà che continua a lanciare l’esca credendoci ancora.

Poi un lancio trasversale per perlustrare la zona a ridosso dei piloni, e la canna si piega decisa.

– Tarpon! Tarpon! Papiriqui svegliati e accendi la telecamera! – urlo con la voce strozzata per la paura di perderlo.

– Finalmente! Dopo due giorni! Sù, pensa a prendere il pesce! – risponde lui ancora assonnato ma felice .

– Alza la canna! Dai, piano piano. Bravo così! –  suggerisce Ernesto ad alta voce, mio consigliere personale in questa battaglia arrivato fin qui da Reggio Calabria con il suo accento marcato, la voglia di parlare e devo dire un’attrezzatura di tutto rispetto.

 Pescava con la sardina viva che a sua volta pescava con il sabiki[5].

In alcuni momenti, ad ogni lancio portava a riva una bellissima sardina gigante pronta da innescare.

         Ma non prendeva niente.

– Cerca di portarlo a destra, fuori dalla corrente. Piano dai! Bravo! –

– Magari prima che faccia notte eh Garcia! – grida Papiriqui distrutto dal sole e dalla salsedine, per non parlare della stanchezza e della sete.

Senza capire quello che stava accadendo tra me e quel tarpon che mai ero riuscito a prendere completamente.

Circondati da una piccola folla di curiosi che assiste alla battaglia senza fare rumore.

Un ragazzo si offre di scendere giù con il raffio pronto a colpire il pesce.

– Tu lo sai fare? – gli chiede Ernesto con tono eccitato ma nello stesso tempo preoccupato.

Esperamos que sì – risponde Papiriqui.

– Quando arriva colpiscilo senza esitazione alla testa! – rammenta il  consigliere al cubano che si avvicina all’acqua.

– Alza sempre la canna. Rrrecupera. Rrrecupera –

– Preso? –

Claro que sì! – risponde soddisfatto Ernesto.

– Papiriqui !?! Il mio primo Tarpon! Finalmente ce l’ho fatta! –

– Il primo sabalo[6] che ti lavori ragazzo? –  chiede un altro cubano sorridendo.

– Eccolo qua! Ottanta dollari mi è costato! La barca potevamo anche non prenderla. Finalmente! Sono tre anni che ci stavi provando! – esclama contento Papiriqui.

– Dai andiamo al sole a fare le fotografie! –

– Ma quale sole Garcia. Sono le nove di sera. Dovrai accontentarti di una foto scura ma va bene lo stesso –

– Sì, è vero. Va bene lo stesso.

Torniamo a casa, Horge ci sta aspettando –

Era quasi buio, ero stanco ma soddisfatto. Accanto a me due maestosi tarpon della stessa misura che continuavo ad osservare, e le loro impressionanti squame staccate sull’asfalto. É un vero peccato uccidere questi pesci.

Il primo, quello di Tomas il modenese, sarebbe morto lo stesso perchè preso nelle branchie.

Il mio rappresenta un sacrificio in onore di una passione e di un momento importante che voglio rimanga eterno, dopo tutto quello che ho dovuto passare per raggiungerlo.

Ma non accadrà più.

E così ne regalo uno al cubano che mi ha aiutato nel salpaggio, che saluto e ringrazio per il sacco di iuta che mi ha prestato per trasportare in macchina il pesce e con il quale mi complimento per lo splendido colpo inferto con il raffio, quasi perfetto come quello dato dal grande Paolo Germani alla nostra leccia record del mondo non omologato sulle 25 libbre, di 27 chili, che abbiamo catturato insieme alla foce del  Tevere, in Italia.

É buio, ho ancora le mani bagnate e nessuna voglia di guidare. Papiriqui dice che puzzo di pesce.

Io passerei la  vita così.

Naturalmente quando Horge apre la porta di casa e mi vede con questo sacco sulle spalle con un sorriso compiaciuto e soddisfatto che illumina il volto capisce tutto, mi abbraccia e chiama ad alta voce Marisol, che si congeda dagli ospiti e accorre rapidamente verso di noi.

È festa grande. La gente chiede incuriosita il nome del pesce.

Assan è il più interessato.

 Non ha mai visto un tarpon in vita sua. È qui per sbaglio. Senza volerlo, dalla Turchia, grazie ad un lavoro offerto da un signore italiano che passa più tempo qui che a casa e che ha messo in piedi una non precisata attività di import-export di pellami, si ritrova a casa di Horge a guardare questo pesce e il suo strano pescatore .

E per un istante si dimentica delle letture  del Corano che continua a recitare con una cadenza regolare durante tutto l’arco della  giornata. Anche qui.

Nel luogo che avrebbe fatto impallidire il buon Allah.

Ma è un bravo ragazzo. Sposato, fedelissimo ma con qualche fantasia che lo assilla e che lo porta a fare strane domande,  quasi volesse vivere attraverso gli altri esperienze a lui precluse e negate, con qualsiasi pretesto attacca a parlare, vuole sapere tutto.

In questo posto molto lontano da casa, dalla moglie e dai bambini, dagli obblighi e dalla morale, vuole conoscere il mondo. Ha bisogno di sentire anche lui questo diritto.

Dalla terrazza della casa si vede tutto il lungomare di Caibarien. É praticamente sopra.

L’unica macchina parcheggiata è la nostra.

La sera dopo cena passava Victor, un vecchio amico di Horge che raccontava di quando era pescatore e le sue mani ancora lo permettevano.

Stavano in mare per settimane, proprio a Maggio, inseguendo i branchi di Pargo che passavano a tonnellate. Non tornavano a casa fino a quando la barca non era stracolma, e a volte per farlo ci volevano molti giorni e por mala suerte[7] erano costretti a fare sosta a Cayo Sal o a Cayo Hueso, due isolotti deserti al centro dello Stretto della Florida a parecchie miglia dalle coste, e dovevano stare attenti ai narcotrafficanti che nascondevano la droga sotto la sabbia e agli elicotteri della marina americana che sparavano su tutti.

Immaginavo solo che posto è questo. Un paradiso di acque cristalline inquinato da affari sporchi.

Per questo c’è tanto pesce.

Chi sa cosa ha provato Victor in quei giorni. E  quanto male gli faccia non pescare più su quella barca.

I giorni di Caibarien sono sempre quelli che fanno più male quando sei lontano.

Ma la nostalgia dell’Avana, quando sei a Cuba, è troppo forte e ti prende poco dopo.

Siamo già sulla strada del ritorno. Pieni e riposati.

La maledizione del grande Tarpon è stata sconfitta.

Le guide di pesca hanno parlato bene dei gerenti di Las Brujas. Abbiamo i loro indirizzi per contattarli al rientro.

La loro struttura, nonché sede ideale per la base di pesca, è gestita da Flora y Fauna, un ente statale specializzato nella salvaguardia della natura.

Andremo a parlare con loro, questo potrebbe essere il posto giusto.


           [1] Pesciolino finto.

           [2] Canzone rock dei White Stripes.

           [3] Esca finta galleggiante.

          [4] Lenze a mano.

          [5] Esche finte composte da piume e filamenti riflettenti.

            [6] Pesce Tarpon in spagnolo.

           [7] Cattiva sorte.

Con le spalle a Cubaultima modifica: 2007-11-13T20:50:00+01:00da mambomarco
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